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Sentenza

Responsabilità civile dei magistrati: è obbligatoria l'azione disciplinare?
Responsabilità civile dei magistrati: è obbligatoria l'azione disciplinare?
Corte Cost., 23 luglio 2021, n. 169

Presidente Coraggio – Redattore Modugno

Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze, di analogo tenore, del 29 giugno 2020 (r.o. n. 141 del 2020) e del 13 agosto 2020 (r.o. n. 13 del 2021), il Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui – secondo l'unica interpretazione della disposizione che il giudice a quo ritiene possibile – impone «al Tribunale investito dell'azione di risarcimento dei danni nei confronti dello Stato per la responsabilità dei Magistrati di trasmettere immediatamente, per il solo fatto della proposizione della domanda giudiziale, sempre e comunque, gli atti del procedimento al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, determinando così l'obbligo per quest'ultimo di esercitare, nei confronti dei Magistrati i cui atti, comportamenti e provvedimenti si assumono forieri di danno, l'azione disciplinare, per i fatti che hanno dato luogo alla proposizione della domanda risarcitoria». 1.1.– Il rimettente premette di essere investito, quale giudice istruttore, di giudizi promossi nei confronti dello Stato per il risarcimento dei danni provocati da atti, comportamenti e provvedimenti di alcuni magistrati ordinari. Nel corso dei procedimenti, il difensore delle parti attrici ha chiesto che venga disposta la trasmissione degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 117 del 1988, per l'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare nei confronti dei medesimi magistrati relativamente ai fatti posti a fondamento dell'azione risarcitoria. 1.2.– Al riguardo, il giudice a quo rileva che l'art. 5, comma 5, della legge n. 117 del 1988, nella formulazione anteriore alla riforma operata con la legge n. 18 del 2015, stabiliva che «[s]e la domanda è dichiarata ammissibile, il tribunale ordina la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare […]», subordinando così tale provvedimento al superamento del cosiddetto filtro di ammissibilità dell'azione di responsabilità civile previsto dallo stesso art. 5 della legge n. 117 del 1988. L'art. 9, comma l, della legge n. 117 del 1988 prevedeva, a sua volta, che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione dovesse esercitare l'azione disciplinare, nei confronti dei magistrati ordinari per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, entro due mesi dalla comunicazione di cui al citato comma 5 dell'art. 5. L'art. 3, comma 2, della legge n. 18 del 2015 ha, peraltro, abrogato integralmente l'art. 5 della legge n. 117 del 1988, eliminando così il filtro di ammissibilità dell'azione risarcitoria, la quale va dunque trattata e istruita a prescindere da qualsiasi vaglio preliminare circa il rispetto dei termini e la sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 2,3 e 4 della legge n. 117 del 1988, nonché in ordine alla sua non manifesta infondatezza. Al contempo, l'art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015 ha modificato l'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, sopprimendo il riferimento al termine di due mesi dalla comunicazione di cui all'art. 5, comma 5, della stessa legge, di modo che la disposizione attualmente recita: «[i]l procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell'azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta». Ad avviso del rimettente, in seguito a tali modifiche, l'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 sarebbe suscettibile di un'unica interpretazione: il tribunale, investito dell'azione di responsabilità civile per danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, sarebbe tenuto – per il solo fatto della proposizione dell'azione – a trasmettere copia degli atti al titolare dell'azione disciplinare, così da consentire l'obbligatorio esercizio di quest'ultima. Tale interpretazione si imporrebbe anzitutto per il tenore letterale della norma, che fa riferimento all'esercizio dell'azione disciplinare da parte del Procuratore generale «per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento», e non per la decisione che definisce il giudizio: dunque, per i fatti come rappresentati nell'atto introduttivo. Militerebbero nella stessa direzione anche ragioni di ordine logico e sistematico, che imporrebbero di valorizzare la portata innovativa della legge n. 18 del 2015. Al fine di assicurare l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione disciplinare per i fatti in questione, si renderebbe necessario che il giudice adito con l'azione risarcitoria trasmetta gli atti al Procuratore generale, quale effetto automatico della mera proposizione della domanda. Il momento dal quale sorge l'obbligo di trasmissione degli atti non potrebbe essere individuato, d'altra parte, nella decisione sulla domanda, né tanto meno nel suo passaggio in giudicato, ponendosi simili soluzioni in contrasto con l'art. 6, comma 2, della legge n. 117 del 1988, secondo cui la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel procedimento disciplinare. L'insorgenza dell'obbligo di trasmissione degli atti non potrebbe neppure essere collegata alla instaurazione del giudizio di rivalsa nei confronti del magistrato, da parte dello Stato condannato al risarcimento dei danni, poiché il legislatore ha scartato tale soluzione, che pure era stata prospettata nel disegno di legge di iniziativa governativa A.S. n. 1626 (art. 3, comma 3). 1.3.– L'esito interpretativo ora esposto genererebbe, tuttavia, seri dubbi sulla legittimità costituzionale dell'attuale testo dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988. Le questioni sarebbero rilevanti nei giudizi a quibus – aventi ad oggetto l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato per attività riferibili a magistrati ordinari – in quanto, non essendo stata ancora disposta la trasmissione degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, il rimettente, quale «assegnatario del procedimento», sarebbe tenuto a provvedervi. Peraltro, sottolinea il giudice a quo, come chiarito da questa Corte (sono citate le sentenze n. 18 del 1989, n. 196 del 1982 e n. 125 del 1977), debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel processo principale, attengono allo status del giudice, alla sua composizione, nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare. 1.4.– Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, la norma censurata – secondo il rimettente – si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l'art. 3 Cost., per contrasto con il principio di ragionevolezza. Con la sentenza n. 164 del 2017, questa Corte ha ritenuto che l'abolizione del filtro di ammissibilità – in precedenza previsto per evitare la proposizione di azioni risarcitorie infondate e non compromettere la serenità nell'espletamento delle funzioni giudiziarie – si giustifichi nell'ottica di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale del cittadino, senza che ne risulti pregiudicato l'equo contemperamento dei contrapposti interessi in gioco (il quale è stato realizzato dal legislatore della riforma per altra via: mantenendo, cioè, il divieto dell'azione diretta contro il magistrato; prevedendo, poi, presupposti autonomi e più restrittivi per l'azione di rivalsa contro il magistrato, attivabile solo se e dopo che lo Stato sia rimasto soccombente nel giudizio di danno; mantenendo, infine, un limite della misura della rivalsa). Tale ragionamento non sarebbe, tuttavia, estensibile all'obbligo di trasmissione degli atti per l'esercizio immediato dell'azione disciplinare, previsto – secondo il giudice a quo – dalla norma denunciata. Tale azione riguarda, infatti, il rapporto di impiego sussistente tra lo Stato e il magistrato e la violazione degli obblighi funzionali da esso scaturenti, senza alcuna incidenza sulla posizione del soggetto che ha proposto l'azione risarcitoria, il quale non trae nessun vantaggio dall'avvio del procedimento disciplinare, né tanto meno dall'applicazione di sanzioni disciplinari al magistrato, di modo che l'obbligo in questione resterebbe privo di giustificazione. L'irragionevolezza della norma censurata si coglierebbe, peraltro, anche sotto quattro ulteriori profili. In primo luogo, l'obbligo in discorso modificherebbe sensibilmente l'assetto della responsabilità disciplinare dei magistrati: esito, questo, estraneo agli obiettivi della legge n. 18 del 2015, con la quale il legislatore intendeva solo regolare in termini più rigorosi i rapporti risarcitori tra lo Stato e i cittadini, in modo da superare i profili di contrasto della precedente disciplina con il diritto comunitario posti in evidenza dalla Corte di giustizia dell'Unione europea. Altro profilo di irragionevolezza risiederebbe nel fatto che, così come interpretato, l'art. 9, comma l, della legge n. 117 del 1988 stabilirebbe una sorta di pregiudizialità dell'azione di responsabilità civile rispetto a quella disciplinare, in antitesi con quanto previsto dal comma 2 dello stesso articolo, il quale, nel prevedere che «[g]li atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d'ufficio, nel giudizio di rivalsa», consente una qualche incidenza del giudizio disciplinare su quello di responsabilità civile – sia pure in sede di rivalsa – e non il contrario. In terzo luogo, poi, la norma censurata confliggerebbe con il principio generale di autonomia della responsabilità disciplinare rispetto alla responsabilità civile, sancito dall'art. 20 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), secondo cui «[l']azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione civile di risarcimento del danno […]» (comma 1). La disposizione colliderebbe, infine, con il principio di tipicità degli illeciti disciplinari dei magistrati, i quali, ai sensi degli artt. 2,3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, costituiscono un numerus clausus. L'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare, per il semplice fatto della proposizione dell'azione risarcitoria, darebbe vita, di contro, a un illecito disciplinare "processuale" a carattere atipico, dalla portata potenzialmente illimitata, svuotando di significato la tipizzazione operata dal citato decreto legislativo. L'art. 3 Cost. sarebbe violato, peraltro, anche sul versante della disparità di trattamento. Diversamente dall'art. 14 (recte: 15), comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006, il quale esige, per il promovimento dell'azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che sia presentata una «denuncia circostanziata» (contenente, cioè, «tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare»), la norma censurata imporrebbe di procedere disciplinarmente per il solo fatto che è stata proposta un'azione di risarcimento dei danni contro lo Stato, a prescindere da qualsiasi valutazione prognostica sulla sua fondatezza. 1.5.– La norma censurata si porrebbe, altresì, in contrasto con gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., in quanto idonea a pregiudicare il principio di soggezione del giudice solo alla legge e a menomare le garanzie di autonomia, indipendenza, terzietà e imparzialità della magistratura. L'obbligo in parola potrebbe essere, infatti, sfruttato dai soggetti che si assumono danneggiati per influenzare le decisioni del magistrato, turbandone la serenità. Proponendo l'azione risarcitoria nei confronti dello Stato, la parte interessata verrebbe a coinvolgere automaticamente il magistrato non solo in un giudizio di responsabilità civile, connesso al diritto di difesa della parte stessa, ma anche in un procedimento disciplinare, che espone il magistrato al rischio di applicazione di sanzioni a carattere afflittivo. Con la citata sentenza n. 164 del 2017, questa Corte ha ritenuto che la soppressione del filtro di ammissibilità non violi i principi di autonomia, indipendenza, terzietà e imparzialità del giudice, in quanto la serenità del giudice resta salvaguardata dal fatto che egli non è parte del giudizio per il risarcimento dei danni previsto dalla legge n. 117 del 1988 (il quale si svolge tra il soggetto che si asserisce danneggiato e lo Stato), nonché dal mantenimento di una misura massima della rivalsa. Questi presidi non operano, però, rispetto all'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare, cui la trasmissione degli atti è strumentale, posto che l'azione si svolge direttamente nei confronti del magistrato, né è prevista alcuna limitazione delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dall'eventuale applicazione di sanzioni disciplinari. 1.6.– Per le ragioni ora esposte, la norma censurata violerebbe anche l'art. 108 Cost., laddove stabilisce che la legge assicura l'indipendenza dei giudici speciali, dato che l'obbligo di trasmissione degli atti riguarderebbe, ai sensi dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, anche magistrati diversi da quelli ordinari, compromettendo in tal modo la loro indipendenza, terzietà e imparzialità. 2.– È intervenuto in entrambi giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate. 2.1.– Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili anzitutto perché sollevate dal giudice istruttore senza il vaglio del collegio, il quale avrebbe dovuto essere investito della decisione ai sensi dell'art. 189 del codice di procedura civile, trattandosi di controversie attribuite al tribunale in composizione collegiale, in virtù dell'art. 50-bis, primo comma, numero 7), cod. proc. civ. Le questioni sarebbero, in ogni caso, prive di rilevanza nei giudizi a quibus. Con esse il rimettente ha, infatti, censurato l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione disciplinare derivante, in assunto, dalla norma denunciata: azione rispetto alla quale il giudice a quo non ha alcuna competenza. Peraltro, quando pure si accertasse che l'asserito obbligo di esercizio dell'azione disciplinare, per il solo fatto dell'avvenuta proposizione di un'azione risarcitoria, è illegittimo, da ciò non discenderebbe l'illegittimità dell'obbligo di immediata trasmissione degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Una volta rimosso, infatti, l'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare, la trasmissione degli atti risulterebbe del tutto innocua e inidonea a ledere i principi costituzionali richiamati dal rimettente. Anche con riguardo al petitum, d'altro canto, le questioni presenterebbero tratti di equivocità tali da renderle inammissibili. Dal tenore delle ordinanze di rimessione, parrebbe, infatti, che, per ricondurre a legittimità costituzionale la norma censurata, occorra ripristinare il testo che essa aveva prima della novella del 2015, in base al quale il titolare dell'azione disciplinare doveva esercitarla entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 5 della legge n. 117 del 1988. Ma, per conseguire questo risultato, occorrerebbe che fosse dichiarata illegittima anche l'abrogazione del citato art. 5, disposta dalla stessa legge n. 18 del 2015: declaratoria che il giudice a quo omette di chiedere. 2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero – secondo l'Avvocatura dello Stato – in ogni caso non fondate. In primo luogo, riguardo all'unico tema sul quale il giudice a quo è effettivamente chiamato a pronunciarsi – ossia l'obbligo di immediata trasmissione di copia degli atti al titolare dell'azione disciplinare – il percorso argomentativo svolto nelle ordinanze di rimessione risulterebbe errato. L'abrogazione del filtro di ammissibilità ha portato, infatti, con sé l'abrogazione dell'obbligo di comunicazione del superamento del "filtro", il riferimento al quale è stato, quindi, espunto dall'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988: con la conseguenza che nessuna norma prevede oggi un obbligo di comunicazione degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, né, tanto meno, che tale obbligo debba essere adempiuto in qualche preciso momento processuale. Un simile obbligo non potrebbe neppure essere desunto da altre norme, e in particolare dal censurato art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, il quale si limita attualmente a prevedere che il Procuratore generale debba esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, salvo sia stata già proposta. Nessun argomento potrebbe essere tratto, in particolare, dalla locuzione «per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento», la quale – anche a volerla intendere come riferita ai fatti indicati nell'atto di citazione – nulla dice riguardo al momento e al modo in cui il Procuratore generale debba venirne a conoscenza. Se il legislatore avesse voluto imporre l'immediata trasmissione degli atti ai titolari dell'azione disciplinare non avrebbe mancato, d'altra parte, di stabilirlo espressamente, allo stesso modo in cui in precedenza aveva imposto espressamente la trasmissione del provvedimento che dichiarava la domanda ammissibile. Anche sul piano logico e sistematico, sarebbe peraltro evidente che, se aveva un senso imporre la trasmissione del provvedimento che riconosceva l'ammissibilità della domanda e far decorrere da essa il termine per l'esercizio dell'azione disciplinare, perché quel vaglio attribuiva un particolare peso alla domanda in termini di fumus boni iuris, una volta che il vaglio preliminare è venuto meno non avrebbe senso un obbligo di immediata trasmissione degli atti e di immediato esercizio dell'azione disciplinare, sulla base di una mera prospettazione di parte. 2.3.– Parimente infondato si rivelerebbe l'ulteriore assunto del rimettente, in base al quale i titolari dell'iniziativa nel procedimento disciplinare sarebbero tenuti ad esercitare l'azione dopo aver ricevuto gli atti e senza alcun vaglio dei fatti indicati nell'atto di citazione. Se si raffronta il testo originario della norma censurata con quello vigente, quel che si coglie è che, mentre in precedenza vi era l'obbligo di procedere disciplinarmente entro due mesi dalla valutazione di ammissibilità della domanda civile, ora – caduto il vaglio di ammissibilità – quell'obbligo è venuto meno. Il che sarebbe del tutto comprensibile, proprio perché il vaglio di ammissibilità colorava di un fumus boni iuris l'azione civile e poteva quindi costituire un'idonea base per l'avvio dell'azione disciplinare, peraltro in un contesto normativo – quello del 1988 – nel quale non vi era il principio di tipicità dell'illecito disciplinare. Venuto meno il vaglio e, con esso, il termine fisso per procedere, si sono riespanse in toto le norme generali di cui al d.lgs. n. 109 del 2006, sulla responsabilità disciplinare dei magistrati. Nel prevedere che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione debba esercitare l'azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, la norma censurata non farebbe, in effetti, che riaffermare quanto già previsto a livello generale dall'art. 14, comma 3, del citato decreto legislativo, in base al quale «[i]l Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha l'obbligo di esercitare l'azione disciplinare». Questa previsione, peraltro, ha il solo scopo di escludere che il Procuratore generale abbia un potere discrezionale: ma ciò non significa che l'azione disciplinare vada immancabilmente esercitata, solo perché da qualcuno viene rappresentato un illecito disciplinare. L'esercizio dell'azione si impone solo ove un illecito, fra quelli tipizzati dallo stesso d.lgs. n. 109 del 2006, sia effettivamente ravvisato: e ciò vale anche rispetto alla previsione dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, la quale – contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo – non è, dunque, in contrasto con il sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati. D'altra parte, l'art. 15 del d.lgs. n. 109 del 2006 consente a chiunque di presentare una «denuncia circostanziata», ossia contenente «tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare». Nulla impedirebbe, pertanto, agli attori nei giudizi civili trattati dal giudice a quo di presentare una simile denuncia al titolare dell'azione disciplinare.

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze di analogo tenore, il Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno dubita, in riferimento agli artt. 3,101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), nella parte in cui – secondo l'unica interpretazione della disposizione censurata che il rimettente ritiene possibile – impone al tribunale investito dell'azione contro lo Stato per il risarcimento dei danni conseguenti a condotte o provvedimenti di un magistrato di trasmettere immediatamente, per il solo fatto della proposizione della domanda, copia degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al fine dell'obbligatorio esercizio, da parte di quest'ultimo, dell'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa alla domanda risarcitoria. In tale lettura, la norma censurata violerebbe anzitutto l'art. 3 Cost., per contrasto con il principio di ragionevolezza sotto molteplici profili. L'obbligo in questione non sarebbe, infatti, sorretto da alcuna ragione giustificatrice, legata all'esigenza di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale del soggetto che si assume illegittimamente danneggiato, il quale non trae alcun vantaggio dall'esercizio dell'azione disciplinare o dall'applicazione di una sanzione disciplinare nei confronti del magistrato. Il meccanismo denunciato modificherebbe, inoltre, sensibilmente l'assetto della responsabilità disciplinare dei magistrati, malgrado non fosse questo l'obiettivo della legge n. 18 del 2015, con la quale il legislatore intendeva solo regolare in termini più rigorosi i rapporti risarcitori tra lo Stato e i cittadini; istituirebbe, altresì, una sorta di pregiudizialità dell'azione di responsabilità civile rispetto a quella disciplinare, in contrasto logico con quanto previsto dal comma 2 dello stesso art. 9 della legge n. 117 del 1988, il quale consente una qualche incidenza del giudizio disciplinare su quello di responsabilità civile (almeno in sede di rivalsa), e non viceversa; si porrebbe in contrasto, ancora, con i principi di autonomia della responsabilità civile rispetto alla responsabilità disciplinare e di tipicità degli illeciti disciplinari dei magistrati, accolti dal decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150). L'art. 3 Cost. sarebbe leso anche sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento. Diversamente dall'art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 – il quale esige, per il promovimento dell'azione disciplinare, che sia presentata una «denuncia circostanziata» – la norma censurata imporrebbe di procedere disciplinarmente per il solo fatto che è stata proposta un'azione per il risarcimento di danni conseguenti all'esercizio di funzioni giudiziarie: e ciò – stante l'avvenuta abolizione del cosiddetto filtro di ammissibilità della domanda – a prescindere da qualsiasi valutazione prognostica sulla sua fondatezza. Risulterebbero violati, inoltre, gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., in quanto l'obbligo censurato si tradurrebbe in uno strumento utilizzabile per influenzare le decisioni del magistrato e turbarne la serenità, compromettendo così il principio di soggezione del giudice solo alla legge e le garanzie di autonomia, indipendenza, terzietà e imparzialità della magistratura. Per le stesse ragioni, la norma denunciata si porrebbe, infine, in contrasto con l'art. 108 Cost., che garantisce l'indipendenza dei giudici speciali, in quanto l'obbligo in discorso riguarderebbe anche magistrati diversi da quelli ordinari, compromettendo quindi la loro indipendenza, terzietà e imparzialità. 2.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 3.– Nell'affrontare il thema decidendum, occorre muovere da una ricostruzione della genesi dei problemi di legittimità costituzionale sottoposti a questa Corte. 3.1.– Nel sistema delineato dalla legge n. 117 del 1988, in un'ottica di contemperamento dei contrapposti interessi in gioco, chi si reputa ingiustamente danneggiato per effetto di comportamenti, atti o provvedimenti di un magistrato, posti in essere con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per effetto di diniego di giustizia, non può agire per il risarcimento direttamente nei confronti del magistrato (salvo che il fatto costituisca reato: art. 13, comma 1), ma solo contro lo Stato (art. 2, comma 1). Ove resti soccombente, lo Stato eserciterà a sua volta azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7), peraltro con un limite di importo, pari a una frazione (un terzo, oggi la metà) del suo stipendio annuale netto al momento della proposizione della domanda di risarcimento (art. 8, comma 3). Nell'intento di bloccare, comunque sia, sul nascere iniziative pretestuose o maliziose, atte a turbare il sereno svolgimento delle funzioni giudiziarie, l'art. 5 della legge n. 117 del 1988 assoggettava in origine la domanda risarcitoria nei confronti dello Stato al cosiddetto filtro di ammissibilità. Alla prima udienza, il giudice istruttore doveva rimettere, cioè, le parti al collegio affinché deliberasse in camera di consiglio, nei quaranta giorni successivi, sull'ammissibilità della domanda. Quest'ultima era dichiarata inammissibile quando non risultassero rispettati i termini e i presupposti di proponibilità normativamente stabiliti (artt. 2,3 e 4 della legge n. 117 del 1988), ovvero quando apparisse manifestamente infondata. In forza del comma 5 dello stesso art. 5, ove la domanda fosse stata dichiarata viceversa ammissibile, il tribunale, nel disporre la prosecuzione del processo, avrebbe dovuto altresì ordinare la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare. Correlativamente, l'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 stabiliva che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, per i magistrati ordinari, o il titolare dell'azione disciplinare, negli altri casi, dovessero «esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta, entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 5» (ferma restando la facoltà del Ministro della giustizia – altro titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari – di esercitare l'azione stessa ai sensi dell'art. 107, secondo comma, Cost.). In sintesi, dunque, se la domanda di risarcimento contro lo Stato superava il vaglio preliminare di ammissibilità, il tribunale adito era tenuto a trasmettere gli atti ai titolari dell'azione disciplinare, i quali dovevano esercitarla, per i fatti posti a base della domanda (salvo quanto previsto riguardo al Ministro della giustizia), entro due mesi dalla trasmissione. Questo meccanismo era calibrato sulla disciplina vigente al momento del varo della legge n. 117 del 1988. All'epoca, il sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati si imperniava, infatti, sulla previsione di un unico illecito disciplinare "atipico", descritto, cioè, con formola estremamente generica, la quale poteva prestarsi, almeno astrattamente, a ricomprendere le ipotesi di dolo, colpa grave e denegata giustizia assunte come generatrici di responsabilità civile (art. 18 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, recante «Guarentigie della magistratura»). Al tempo stesso, l'azione disciplinare era, per regola generale, facoltativa (art. 14, primo comma, numero 1, della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura»). La norma censurata aveva, in quest'ottica, una chiara giustificazione: prevedendo l'obbligo di esercitare l'azione nel caso di dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria, essa introduceva una deroga al principio generale. 3.2.– Il quadro normativo di riferimento è, però, radicalmente mutato a seguito del d.lgs. n. 109 del 2006, con il quale è stata introdotta una nuova regolamentazione della responsabilità disciplinare dei magistrati, ispirata a principi esattamente opposti a quelli ora ricordati. Sul piano sostanziale, il nuovo sistema si impernia, infatti, sulla tipizzazione degli illeciti: le sanzioni disciplinari possono essere inflitte, cioè, solo qualora risulti integrata una delle fattispecie analiticamente descritte negli artt. 2,3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, e sempre che non entri in gioco la clausola limitativa di cui all'art. 3-bis, in base alla quale l'illecito disciplinare non è configurabile «quando il fatto è di scarsa rilevanza». Tra le ipotesi di responsabilità civile, delineate dalla legge n. 117 del 1988, e le ipotesi di responsabilità disciplinare, individuate dal d.lgs. n. 109 del 2006, non vi è, peraltro, necessaria coincidenza: nel senso, in particolare, che le prime possono non rientrare tra le seconde. Al contempo, l'esercizio dell'azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione è divenuto, in via generale, obbligatorio (art. 14, comma 3, del d.lgs. n. 109 del 2006). Nell'intento di evitare che – a fronte della proliferazione di denunce ed esposti da parte di privati – la nuova regola portasse a un sovraccarico della giustizia disciplinare, sono state peraltro introdotte, oltre alla ricordata clausola sulla scarsa rilevanza del fatto (art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006), specifiche regole procedurali, intese a selezionare le notizie che giustificano il promovimento dell'azione. Si è richiesto così, anzitutto, che il Procuratore generale venga posto a conoscenza del fatto a mezzo di una «denuncia circostanziata», intendendosi per tale quella che «contiene tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie disciplinare»; in caso contrario, essa «non costituisce notizia di rilievo disciplinare» (art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006). Si è prefigurata, poi, una fase cosiddetta predisciplinare, intesa a verificare preventivamente, tramite sommarie indagini (art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 209 del 2006), la notizia di illecito e la plausibilità di una conseguente incolpazione. Si è stabilito, infine, che il Procuratore generale proceda all'archiviazione diretta della notizia – non soggetta, cioè, a controllo giurisdizionale – se la condotta risulta disciplinarmente irrilevante ai sensi dell'art. 3-bis, se la denuncia non è circostanziata, se il fatto non rientra in alcuna delle ipotesi previste dalla legge, o se dalle indagini espletate il fatto risulta inesistente o non commesso; ciò, salvo diverso avviso del Ministro della giustizia, cui il provvedimento è comunicato (art. 16, comma 5-bis, del d.lgs. n. 109 del 2006). È sorto, di conseguenza, il problema di come coniugare tale mutato assetto della responsabilità disciplinare con la previsione della legge sulla responsabilità civile – quella, appunto, dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 – che ricollegava, con apparente indefettibile automatismo, il promovimento dell'azione disciplinare alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria contro lo Stato. 3.3.– I problemi di coordinamento tra le due forme di responsabilità si sono, peraltro, acuiti a seguito della successiva riforma della disciplina della responsabilità civile dei magistrati operata dalla legge n. 18 del 2015 (che è quella che dà adito agli odierni incidenti di legittimità costituzionale): riforma alla cui radice si colloca l'esigenza di rimuovere profili di contrasto della normativa previgente con il diritto comunitario posti in evidenza dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo spa; Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 2011, in causa C-379/10, Commissione europea contro Repubblica italiana). In concreto, la novella legislativa ha operato una serie di interventi espansivi dell'area della responsabilità civile che vanno di là da quanto strettamente necessario a tale fine, con l'effetto, tra l'altro, di ampliare lo iato tra i fatti generatori di responsabilità civile e le ipotesi "tipizzate" di responsabilità disciplinare. Quel che più conta agli odierni fini è, però, che la legge n. 18 del 2015, con il suo art. 3, comma 2, ha soppresso il filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria contro lo Stato (rivelatosi, a giudizio del legislatore della riforma, troppo selettivo nell'esperienza applicativa), abrogando in toto l'art. 5 della legge n. 117 del 1988: compreso, dunque, il comma 5, che prevedeva la trasmissione degli atti ai titolari dell'azione disciplinare nel caso di dichiarazione di ammissibilità della domanda. Di riflesso, l'art. 6, comma 1, della legge n. 18 del 2015 ha modificato l'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, sopprimendo l'inciso – che definiva il termine (ma anche il presupposto) per l'esercizio obbligatorio dell'azione disciplinare – «entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 5». Il risultato è che la disposizione censurata recita attualmente, in modo secco, nel suo primo periodo: «[i]l procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell'azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta». 4.– È su questo quadro che si innestano gli odierni incidenti di legittimità costituzionale. Il giudice a quo si trova investito, quale giudice istruttore, di due cause promosse nei confronti dello Stato per il risarcimento dei danni derivati, in assunto, da comportamenti, atti e provvedimenti di alcuni magistrati ordinari. In tale veste, il rimettente è stato sollecitato dal difensore delle parti attrici a trasmettere copia degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, affinché eserciti l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati interessati. Secondo il giudice a quo, a fronte degli interventi operati dalla legge n. 18 del 2015, l'unica interpretazione possibile dell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988 sarebbe, in effetti, la seguente: il tribunale adito con l'azione risarcitoria dovrebbe trasmettere immediatamente copia degli atti al Procuratore generale, il quale, a sua volta, sarebbe tenuto – per il solo fatto della proposizione della domanda e a prescindere da ogni valutazione prognostica sulla sua fondatezza – ad esercitare l'azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti posti a base della domanda. Tale interpretazione si giustificherebbe, sia per il tenore letterale della norma, che prevede l'esercizio dell'azione disciplinare «per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento», ossia per i fatti come rappresentati nell'atto introduttivo del giudizio, e non per la decisione che lo definisce; sia per ragioni di ordine logico e sistematico, che imporrebbero di valorizzare la portata innovativa della legge n. 18 del 2015. Al fine di assicurare l'obbligatorio esercizio dell'azione disciplinare per i fatti in questione, occorrerebbe, d'altra parte, che il Procuratore generale sia posto a conoscenza dei fatti stessi e, dunque, che il giudice chiamato a conoscere dell'azione risarcitoria gli trasmetta gli atti quale «effetto automatico» della proposizione della domanda. Siffatti esiti interpretativi genererebbero, peraltro, i dubbi di legittimità costituzionale sottoposti al vaglio di questa Corte, sintetizzati al punto 1 che precede. 5.– Ciò chiarito, occorre prendere preliminarmente in esame le plurime eccezioni di inammissibilità formulate dall'Avvocatura generale dello Stato. Nessuna di esse si rivela, peraltro, fondata. 5.1.– Non lo è, anzitutto, quella relativa al supposto difetto di legittimazione del giudice a quo, derivante dal fatto che le cause previste dalla legge n. 117 del 1988 sono devolute al tribunale in composizione collegiale (art. 50-bis, primo comma, numero 7, del codice di procedura civile): circostanza che – a parere della difesa dello Stato – non avrebbe consentito al giudice istruttore di sollevare le questioni senza il vaglio del collegio. In senso contrario, va rilevato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi civili attribuiti al tribunale in composizione collegiale, il giudice istruttore non può sollevare questioni di legittimità costituzionale delle norme da applicare per la definizione della controversia, la cui identificazione e valutazione spetta al collegio, ma può bene sollevare questioni relative a norme che egli stesso debba applicare per adottare provvedimenti attribuiti alla sua competenza (tra le altre, sentenza n. 204 del 1997 e n. 84 del 1996; ordinanze n. 266 del 2014, n. 552 del 2000 e n. 295 del 1996). La trasmissione degli atti al titolare dell'azione disciplinare – cui l'odierno rimettente è stato sollecitato – è provvedimento che, di per sé, evidentemente non attiene alla definizione della causa risarcitoria promossa nei confronti dello Stato, traducendosi in una semplice comunicazione. È vero che, nel sistema anteriore alla legge n. 18 del 2015, la trasmissione doveva essere ordinata dal collegio; ma ciò solo perché, in quel sistema, essa era configurata come adempimento "appendicolare" alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria: pronuncia, questa, demandata al collegio, in ragione del suo carattere decisorio (art. 5, comma 5, ultimo periodo, della legge n. 117 del 1988). Non è, dunque, implausibile la tesi del rimettente, secondo la quale – una volta svincolata dal vaglio di ammissibilità e collegata alla semplice proposizione della domanda – la trasmissione dovrebbe essere disposta dal giudice istruttore, in quanto «assegnatario del procedimento»: donde la sua legittimazione a censurare, sul piano della legittimità costituzionale, la norma dalla quale il relativo obbligo deriva. Non si potrebbe, del resto, ipotizzare che il compito in questione gravi piuttosto sul presidente del tribunale in virtù del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, lettera dd), e 14, comma 4, del d.lgs. n. 109 del 2006, i quali pongono, in via generale, a carico dei dirigenti degli uffici l'obbligo di comunicare alla Procura generale presso la Corte di cassazione i fatti di rilievo disciplinare di cui siano venuti conoscenza. Come emerge dal citato art. 2, comma 1, lettera dd), l'obbligo del dirigente dell'ufficio concerne, infatti, gli illeciti disciplinari posti in essere da magistrati appartenenti all'ufficio da lui diretto: laddove, per converso, il magistrato la cui condotta ha dato luogo alla domanda risarcitoria non può mai prestare servizio presso il tribunale chiamato a decidere sulla domanda stessa, essendo ciò escluso dalla regola di competenza stabilita dall'art. 4, comma 1, della legge n. 117 del 1988. 5.2.– Parimente non fondata è l'ulteriore eccezione dell'Avvocatura dello Stato di inammissibilità per difetto di rilevanza, basata sulla considerazione che, con le questioni sollevate, il rimettente mira, nella sostanza, a contestare l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione disciplinare che deriverebbe dalla norma denunciata: azione rispetto alla quale il giudice a quo non ha, comunque sia, alcuna competenza. Nella prospettiva ermeneutica del rimettente, la rimozione dell'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento travolgerebbe automaticamente anche l'obbligo – ad esso "servente" – di trasmissione degli atti al Procuratore generale, posto altrimenti a carico del rimettente stesso. Di qui, dunque, la rilevanza delle questioni (per una ipotesi strutturalmente analoga, sentenze n. 96 del 2020 e n. 109 del 2017). 5.3.– Insussistente si palesa, infine, l'eccepita equivocità e inadeguatezza del petitum. Contrariamente a quanto ventila l'Avvocatura generale dello Stato, gli incidenti di legittimità costituzionale non sono finalizzati a conseguire il ripristino del testo della norma denunciata anteriore alla novella legislativa del 2015, in base al quale il titolare dell'azione disciplinare doveva esercitarla entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 5 della legge n. 117 del 1988 (operazione che richiederebbe anche la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'abrogazione del citato art. 5, rimasta estranea al petitum). Sia dal dispositivo, sia dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione, emerge con chiarezza come il giudice a quo non intenda affatto riesumare il vecchio istituto del filtro di ammissibilità (la cui soppressione è già stata ritenuta non costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 164 del 2017). Quel che il rimettente chiede è l'ablazione pura e semplice dell'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare delineato dalla norma censurata e, conseguentemente, dell'obbligo di trasmissione degli atti ad esso strumentale. 6.– Se pure, dunque, ammissibili, le questioni non sono però nel merito fondate. Il presupposto ermeneutico su cui poggiano i quesiti risulta, infatti, non corretto, nella parte che rileva ai fini dello scrutinio di legittimità costituzionale. 6.1.– Pur nell'attuale assenza di una espressa indicazione in tal senso, il rimettente ricava non implausibilmente dal disposto della norma censurata l'obbligo, per il giudice investito dell'azione di risarcimento di danni cagionati da magistrati ordinari nell'esercizio delle loro funzioni, di rimettere copia degli atti al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. La perdurante previsione dell'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare per i fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento presuppone, in effetti, l'esistenza di adeguati canali informativi del titolare dell'azione disciplinare riguardo alle vicende atte a rendere operante l'obbligo stesso. La trasmissione degli atti dei giudizi risarcitori assicura, per l'appunto, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione una "finestra conoscitiva" – non lasciata alla sola iniziativa, meramente eventuale, delle parti interessate – riguardo alle condotte dei magistrati che si assumono aver prodotto danni ingiusti con dolo o colpa grave, ovvero per effetto di denegata giustizia. 6.2.– Il giudice a quo non può essere seguito, per converso, allorché ulteriormente suppone – ed è questo, in effetti, il profilo su cui si focalizzano le sue censure – che il Procuratore generale sia tenuto immancabilmente ad esercitare l'azione disciplinare non appena abbia notizia della pendenza di un giudizio risarcitorio. Benché supportata, in apparenza, dalla lettera della disposizione censurata, tale conclusione è da escludere sulla base di un'interpretazione sistematica che tenga conto della ratio della riforma di cui alla legge n. 18 del 2015. Del resto essa è scartata in modo pressoché corale dai suoi interpreti, e non risponde, in fatto, alla consolidata prassi operativa della Procura generale presso la Corte di cassazione. Già prima di tale riforma – allorquando la disposizione denunciata collegava l'obbligo di esercizio dell'azione disciplinare alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria – si era ritenuto, in effetti, necessario coordinare tale previsione con il nuovo assetto della responsabilità disciplinare dei magistrati introdotto dal d.lgs. n. 109 del 2006: traendosi da ciò la conclusione per cui la comunicazione dell'avvenuto superamento del filtro di ammissibilità non imponeva, per ciò solo, di avviare l'azione disciplinare, in difetto di una condotta classificabile nel catalogo degli illeciti stabilito dal citato decreto legislativo. Ciò, sia per una ragione procedurale, legata al fatto che il nuovo sistema – caratterizzato in termini di regola, e non di eccezione, dalla obbligatorietà dell'iniziativa del Procuratore generale – contempla appunto per questo una fase cosiddetta predisciplinare di valutazione (anche con acquisizioni "istruttorie" in senso lato) della natura «circostanziata» dell'addebito disciplinare e della plausibilità dell'incolpazione, in difetto della quale è prevista l'archiviazione diretta del caso da parte del Procuratore generale, salva diversa determinazione del Ministro della giustizia (art. 16, comma 5-bis); sia per una ragione sostanziale, connessa alla circostanza che il principio di legalità e tassatività dell'illecito disciplinare, che si esprime nel catalogo chiuso degli artt. 2,3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, impedisce che si possa promuovere un'azione disciplinare per un fatto – quale che ne sia la fonte di informazione – che non vi rientra. Tale indirizzo appare a maggior ragione giustificato dopo la caduta del filtro di ammissibilità, conseguente alla legge n. 18 del 2015. Per quanto può desumersi dai lavori parlamentari, la soppressione, nell'art. 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, dell'inciso «entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell'articolo 5» è stata suggerita da una mera esigenza di coordinamento con l'avvenuta abrogazione dell'intero art. 5, senza che essa sia stata accompagnata da alcuna volontà di innovare al sistema della responsabilità disciplinare, e senza neppure che il legislatore si sia posto il problema di coordinare, nel resto, la disciplina dell'obbligatorietà dell'azione disciplinare, come concepita nel 1988, con la successiva ridefinizione sostanziale e procedurale del sistema disciplinare, realizzata nel 2006. La soppressione dell'inciso trae, infatti, origine da una proposta di emendamento al disegno di legge A.S. n. 1070, presentata nella seduta della Commissione giustizia del Senato della Repubblica del 5 novembre 2014 in sede di coordinamento e approvata senza alcuna discussione. Nemmeno consta alcun indice di una eventuale volontà legislativa di innovare al principio di autonomia dell'azione disciplinare rispetto all'azione civile di danno, stabilito dall'art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 109 del 2006 (in forza del quale «[l]'azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione civile di risarcimento del danno […]»): principio che riflette le differenze tra le due forme di responsabilità (la responsabilità civile attiene ai rapporti del magistrato con le parti processuali o altri soggetti a causa di eventuali errori o inosservanze nell'esercizio delle funzioni, mentre la responsabilità disciplinare consegue alla violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato-datore di lavoro), e che trova altresì riscontro nella previsione dell'art. 6, comma 2, della legge n. 117 del 1988 – non incisa dalla riforma del 2015 – secondo cui la decisione pronunciata nel giudizio risarcitorio non fa stato nel procedimento disciplinare. In quest'ottica, va escluso che la legge di riforma della responsabilità civile dei magistrati abbia mutato, anche solo pro parte, la struttura del sistema di giustizia disciplinare: sicché, in sostanza, per quanto attiene a tale sistema, è la legge n. 117 del 1988 a dover essere armonizzata con l'assetto del d.lgs. n. 109 del 2006, e non viceversa. È giocoforza, di conseguenza, concludere che i presupposti per l'esercizio, sia pure obbligatorio, dell'azione disciplinare non sono stati rivisitati dalla modifica della legge n. 117 del 1988. Da un lato, dunque, il promovimento di tale azione richiede, comunque sia, l'acquisizione della notizia circostanziata di un fatto riconducibile ad una delle ipotesi tipiche previste dalla legge, e non può fondarsi sulla semplice notizia della pendenza di una causa risarcitoria, la quale, di per sé, non è sussumibile in alcuna fattispecie; dall'altro lato, ove pure la domanda risarcitoria presenti le caratteristiche di una «notizia circostanziata» di illecito disciplinare, ciò non esclude la necessità di svolgere accertamenti predisciplinari, intesi a verificare che quella notizia abbia una qualche consistenza (e non attenga, altresì, a un fatto di scarsa rilevanza, ai sensi dell'art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006). 6.3.– Alla luce di quanto precede, le discrasie della norma in esame con la disciplina del d.lgs. n. 109 del 2006, denunciate dal rimettente come lesive dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, si palesano insussistenti; cadono, al tempo stesso, i sospetti di violazione dei principi di soggezione del giudice solo alla legge e di autonomia, indipendenza, terzietà e imparzialità della magistratura. Una volta escluso l'ipotizzato indefettibile esercizio dell'azione disciplinare per la mera proposizione della domanda risarcitoria – come assumono le ordinanze di rimessione in ragione di una non corretta interpretazione della disposizione censurata e della disciplina di riferimento – l'obbligo di trasmissione degli atti alla Procura generale, che il rimettente plausibilmente reputa insito nel disposto della norma censurata, si rivela "innocuo" per i valori costituzionali evocati, lasciando ferma l'esigenza della verifica circa l'effettiva ricorrenza dei presupposti per l'esercizio – sia pur obbligatorio – dell'azione disciplinare, nei termini dianzi indicati. Viene meno, di conseguenza, il timore che il meccanismo possa essere maliziosamente utilizzato da soggetti interessati al fine di incidere sull'indipendenza e sulla serenità di giudizio del magistrato. 7.– Sulla base delle considerazioni esposte, le questioni vanno dichiarate non fondate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall'art. 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), sollevate, in riferimento agli artt. 3,101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe.
Avv. Antonino Sugamele

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