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Sentenza

Cancelliere accede alla cassaforte ove i libretti vincolati erano custoditi, falsifica i mandati di pagamento e consegue di persona l'incasso.
Cancelliere accede alla cassaforte ove i libretti vincolati erano custoditi, falsifica i mandati di pagamento e consegue di persona l'incasso.
Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 09-04-2019) 16-05-2019, n. 13246
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni - Primo Presidente -
Dott. CAPPABIANCA Aurelio - Presidente di Sezione -
Dott. VIVALDI Roberta - Presidente di Sezione -
Dott. TRIA Lucia - Consigliere -
Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -
Dott. DE STEFANO Franco - rel. Consigliere -
Dott. ACIERNO Maria - Consigliere -
Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere -
Dott. CARRATO Aldo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 6769/2016 proposto da:
D.B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA BALDUINA
44, presso lo studio degli avvocati MARIO ed ALESSANDRO BENEDETTI,
rappresentato e difeso dall'avvocato RICCARDO DI BELLA;
- ricorrente -
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
- resistente -
e contro
S.G.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 1353/2015 della CORTE D'APPELLO di CATANIA,
depositata il 13/08/2015;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/04/2019 dal Consigliere FRANCO DE STEFANO;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato Generale Dott.
SALVATO Luigi, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;
uditi gli avvocati Mario Benedetti per delega dell'avvocato Riccardo Di
Bella e Verdiana Fedeli per l'Avvocatura Generale dello Stato.
Svolgimento del processo
1. Per l'illecita sottrazione di somme depositate presso un ufficio
giudiziario ed alle quali avrebbe avuto diritto quale parte di un giudizio
di divisione, D.B.G. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di
Catania, il cancelliere S.G. ed il Ministero della Giustizia, chiedendone
la condanna al risarcimento del danno a lui derivato dal comportamento
illecito dello S., il quale si era appropriato di quelle somme, poi venendo
condannato per peculato.
2. Il Ministero convenuto si costituì e chiese il rigetto della domanda;
ma, rimasto contumace lo S., per quel che qui ancora rilevaiil Tribunale
- con sentenza n. 4400 del 28/12/2011 - la accolse e condannò il
Ministero convenuto al pagamento, in favore del D.B., della somma di
Euro 46.896,32, oltre interessi e spese di giudizio, ritenuti sussistenti i
presupposti dell'estensione della responsabilità all'Amministrazione, a
norma dell'art. 28 Cost..
3. L'appello del Ministero, cui resistette il solo D.B., fu in parte accolto
dalla corte territoriale, che mandò assolto l'appellante da ogni pretesa
risarcitoria per avere il suo dipendente agito per un fine strettamente
personale ed egoistico, estraneo all'Amministrazione e addirittura
contrario ai fini che essa perseguiva, idoneo ad escludere ogni
collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente.
4. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Catania,
pubblicata il 13/08/2015 col n. 1353, D.B.G. propose ricorso basato su
un unico motivo, poi illustrato da memoria già per l'adunanza in sesta
sezione, cui resistette il solo Ministero, dapprima con mero atto di
costituzione in giudizio e poi con memoria.
5. Fu disposta la trattazione del ricorso in pubblica udienza (con
ordinanza della sesta sezione di questa Corte, 27/05/2017, n. 12861)
e poi la rimessione a queste Sezioni Unite (ordinanza 05/11/2018, n.
28079) della questione, ritenuta oggetto di giurisprudenza non univoca,
sulla "sussistenza o meno della responsabilità civile della pubblica
amministrazione per i fatti illeciti dei propri dipendenti, qualora il
dipendente, profittando delle sue precipue funzioni, commetta un
illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale"; ed
infine, per la pubblica udienza del 09/04/2019, formulate dal Pubblico
Ministero anche conclusioni scritte richiamate nel corso della
discussione orale, il solo Ministero ha depositato memoria ai
sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
A. Inquadramento della fattispecie. 1. La sentenza impugnata ha
rigettato la domanda risarcitoria della vittima del peculato del
cancelliere in base all'orientamento della giurisprudenza di legittimità
(richiamando: Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 17/09/1997, n.
9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass. 13/12/1995, n. 12786; Cass.
03/12/1991, n. 12960) secondo cui, affinchè ricorra la responsabilità
della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente,
poichè il fondamento di quella risiede nel rapporto di immedesimazione
organica, deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il
comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità
all'Amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone
che l'attività posta in essere dal dipendente si manifesti come
esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè tenda, pur se con
abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo
nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente
è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente
agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed
egoistico, che si riveli del tutto estraneo all'amministrazione o perfino
contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le
attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il
rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello
stesso senso anche Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonchè, in precedenza
e tra le altre: Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in
riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa
applicazione dell'art. 28 Cost.e dell'art. 2049 c.c., dolendosi
dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che "ai fini
dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il
comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba
necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto
della riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"; contesta
che debba "ricadere esclusivamente sul danneggiato la scelta
dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a soggetto
rivelatosi privo dei requisiti morali"; chiede che risponda del "danno...
occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli".
3. Sostiene, ancora, il D.B. che il principio secondo cui la responsabilità
dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28 Cost., debba
ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando delle sue precipue
funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso
utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato costituzionale, nè in
norme di legge, integrando un "disparitario postulato assolutamente
privo di sostrato logico e giuridico, che non solo svuota di ogni
contenuto quella norma di garanzia (evidentemente posta a tutela
dell'amministrato), ma ne sbilancia smaccatamente gli effetti a tutto
favore dell'Amministrazione"; sicchè la Corte di merito avrebbe dovuto
piuttosto aderire al diverso orientamento espresso con la sentenza di
questa Corte, VI Sez. Pen., n. 13799 del 31 marzo 2015, secondo cui
"è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte
dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente
personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse
sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione
offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre,
non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in
applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 c.c." (annullato così il
rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di imputato che, quale
agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si era appropriato di
titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto,
commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si fonda sul
fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo S. aveva esplicato
l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto, nella qualità di
funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella veste istituzionale
gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i libretti vincolati
erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e conseguirne di
persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso, invoca la
giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della responsabilità
diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa della condotta del
funzionario o del dipendente, come esplicazione dell'attività di quella in
virtù del rapporto organico, ricollegabile ad attribuzioni proprie di lui:
tanto da escludere ogni responsabilità nel caso, come quello in esame,
di condotta sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico del
funzionario o dipendente ed anzi contrario agli scopi istituzionali
perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il
Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità
penale, da un lato perchè anch'essa postula i caratteri dell'assoluta
imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai
suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento
con essi) e dall'altro perchè la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi
parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo
funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del
delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con ampiezza di
riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando dalla
disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti pubblici per i
fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari; illustra una
prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente odierna
giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente (ma pure
di quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato per
il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in applicazione di criteri
pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di attività corrispondente
ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto organico, allorchè quella vada
imputata direttamente all'ente (con orientamento definito consolidato
da Cass. n. 15930/02, seguita poi, tra le altre, da Cass. nn. 2089 e
27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011, 21408/14 e 8991/15); ma
ricorda pure una seconda interpretazione, propria soprattutto della
giurisprudenza penalistica (Cass. pen. nn. 21195/11, 40613/13, 13799
e 44760 del 2015) e di una giurisprudenza civilistica ora più remota e
poi superata, ora minoritaria (Cass. nn. 20928/15 e 17836/07), ora
riferita a rapporti di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/90,
20924/15, 22058/17, 4298/19) e quindi non assimilabili al rapporto che
lega il pubblico dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale
riconosce la responsabilità di questi pure in applicazione di criteri
privatistici, corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del
preponente ai sensi dell'art. 2049 c.c., ammettendola così in ipotesi di
nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di un
effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione di
una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa
esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente
connessa con l'attività d'ufficio, benchè non esclusa in ipotesi di
condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un
ordine, purchè si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto
indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal
carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime,
sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo
rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto delle
circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella violazione
di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione (05/11/2018, n. 28079), esclusa la
tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 c.p.c., applicabile in
ragione della data di instaurazione del giudizio in primo grado, identifica
come oggetto della controversia la questione della sussistenza o meno
della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per i danni
cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente quando questi
abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità
esclusivamente personali od egoistiche ed estranee all'amministrazione
di appartenenza; ed individua la ragione della sua devoluzione a queste
Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul punto, delle conclusioni
della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha
ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti
pubblici nell'art. 28 Cost. - la cui ratio è quella di un più agevole od
ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato e,
basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica, solo
in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o dipendente)
è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha desunto la
configurazione di una responsabilità diretta o per fatto proprio, ma
soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione dell'attività
dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con abuso di potere,
al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni
dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto (richiamando: Cass.
12/08/2000, n. 10803; Cass. 30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997,
n. 9260). Ne conseguirebbe l'esclusione di quella responsabilità in tutti
i casi in cui la condotta sia sorretta da un fine esclusivamente privato
od egoistico, o a maggior ragione se contrario ai fini istituzionali
dell'ente (Cass. 12/04/2011, n. 8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986,
Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass.
12/08/2000, n. 10803; Cass. 13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza
penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica
amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a
perseguire finalità esclusivamente personali e mercè la realizzazione di
un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria
offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti,
nonchè integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non
corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio
previsto dall'art. 2049 c.c. (Cass. pen., 20/01/2015, n. 13799 - poi
richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma preceduta da Cass.
pen. 11/06/2003, n. 33562 - in consapevole contrasto con
l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore espressione la più
recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste nella
giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione,
meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o dei
promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in ordine
ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti anche nei
casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le
incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che
è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art.
2049 c.c., e non viene meno in caso di commissione da parte del
preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente
personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033; successivamente, v.:
Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/7/2009, n. 17393; Cass.
25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829; Cass. 13/12/2013,
n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass. 10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della giurisprudenza in materia e la
rimessione della relativa questione a queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione della questione sono:
- l'art. 28 Cost., per il quale, com'è noto: "I funzionari e i dipendenti
dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo
le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione
di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli
enti pubblici";
- l'art. 2049 c.c., rubricato "responsabilità dei padroni e dei
committenti", per il quale "i padroni e i committenti sono responsabili
per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti".
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio
espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano invece
alcuni articoli del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in
particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
- "l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle
leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi
dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di
risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente
con l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base
alle norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista
anche la responsabilità dello Stato";
- "è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da
ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per
dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste
dalle leggi vigenti".
D. La normativa costituzionale.
15. E' noto l'ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all'indomani
dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art. 28
Cost.: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della
responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a quella dell'agente, è
invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due
responsabilità, ricostruita quella dello Stato od ente pubblico come
diretta, in forza dei principi sull'immedesimazione organica dovendo
escludersi che l'attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali
dal pubblico funzionario o dipendente potesse imputarsi allo Stato o
ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione della
responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del suo
dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui, dovendo la
Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle conseguenze
dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono per suo conto),
nè altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura composita di quella
stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione rispondere in via
diretta per i danni causati nello svolgimento dell'attività
provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si configurerebbe
un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione della funzione
diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta in essere da
funzionari dotati del potere rappresentativo - organi in senso stretto -
attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce nei rapporti
esterni) ed in via indiretta per i danni causati nell'espletamento di ogni
altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della responsabilità
diretta da rapporto organico in funzione limitativa si fonda sulla tesi del
contenimento dell'innovazione portata dalla norma costituzionale:
questa non starebbe nell'immutazione della natura della responsabilità
dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come nel sistema anteriore
all'entrata in vigore della Costituzione, in termini di responsabilità
diretta o per fatto proprio; essa invece starebbe nella previsione,
accanto alla responsabilità diretta della pubblica amministrazione, di
una concorrente responsabilità, sempre diretta, del funzionario o del
dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere
chiamato a rispondere, in solido con l'Ente di appartenenza, solo ove
tale responsabilità solidale fosse prevista da specifiche disposizioni di
legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema
fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette,
spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l'una o
l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere
interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un
organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in
essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di
atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez.
5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11 agosto 2012,
n. 536), o comunque allorchè il soggetto agente, legato alla P.A. da un
rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il
provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A.,
nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse
personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente (TAR
Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno
dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del
rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza
di uno degli "elementi essenziali" - L. n. 241 del 1990, ex art. 21
septies, - individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo
alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in
essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra le
altre: Corte Cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte Cost. n. 18 del
1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art. 28
Cost., stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti tanto
dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello Stato
o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti al
legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte Cost. nn. 18 del
1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei
funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti,
mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code civil francese
(ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi corrisponde
all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del 10/02/2016, in
vigore dal 01/10/2016), a mente del quale "les maitres et les
commettants... sont solidairement responsables du dommage causè...
par leurs domestiques et prèposès dans les fonctions auxquelles ils les
ont employès"; in tale fattispecie si conferma, analogamente ad altre
ipotesi di responsabilità civile senza colpa, la deroga al principio ohne
Schuld keine Haftung, che permea sia l'altro ordinamento cardine dei
sistemi romanisti (quello tedesco in punto di Deliktsrecht, benchè in via
di graduale superamento e solo in determinati settori, mediante la
ricostruzione di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del
2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla novella del BGB sulla
sussistenza di obblighi di protezione più ampi rispetto a quelli di
prestazione, tali da riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è
parte del contratto), sia il sistema originario di common law (in cui la
Tort Law presuppone appunto ed almeno in linea generale un difetto di
due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad economie
rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di preposizione, è stato
via via ampliato in forza di un'interpretazione evolutiva, per essere
esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si
avvalgono dell'opera di altri a loro legati in forza di vincoli di varia
natura (e non necessariamente di dipendenza: su tale specifico punto,
tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della
responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando
questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il
testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria,
cosicchè il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si risolve
nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che le è
irrilevante; al contrario (benchè in dottrina si parli anche di
responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si è
dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori
richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n.
25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente pubblico
concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026,
espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del
secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione
moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del
quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro per
il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di quella
posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne
l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che
di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze
generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte
dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di
altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle persone
fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è indispensabile
il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte per l'imputazione
di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai
vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento
dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti
privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità
hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra
esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento
costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed
all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto sussistente
non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio delle incombenze,
ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo
all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato
della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le
incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria
(e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le
funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la
realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il
dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia
agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass.
24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione
però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non
imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non
potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività del
preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od
eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse
all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/16, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le
conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo collegate
alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè non
riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste -
anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di contrarietà ad
esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti secondo un giudizio
oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in definitiva,
essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla normale
estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle oggetto della
preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone le violazioni o
deviazioni oggettivamente probabili: sicchè chi si avvale dell'altrui
operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di più senza
eccezioni e la rilevanza del proprio elemento soggettivo, delle sue
conseguenze dannose in quanto egli possa ragionevolmente
raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dei poteri conferiti
o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei propri rischi; e così
risponde di quelle identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di
normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle
ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile o - secondo
i principi di causalità adeguata elaborati da questa Corte fin da Cass.
Sez. U. 11/01/2008, n. 576 "più probabile che non", in un dato contesto
storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni
ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima, propria della
prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante
penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa),
per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il
fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in
forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività
corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto
organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda,
propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di
parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria,
ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base
alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico in
applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a
quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell'art. 2049
c.c., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta
illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra
dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più,
nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni altro
privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di poteri
pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante
orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di
condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi
ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del
rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto
altrui: entrambi sono validi, poichè il primo non esclude il secondo ed
ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A.
di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione
dei criteri generali dell'art. 2043 c.c., al risarcimento del danno
(secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500)
o si riconduce all'estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un
formale provvedimento amministrativo, emesso nell'ambito e
nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti,
oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non
sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla
distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v.
da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più
remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse
generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche
ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica di regola -
pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità
diretta in forza della sicura imputazione della condotta all'ente; del
resto, con l'introduzione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, pure
la carenza di un elemento essenziale - in genere esclusa se l'atto integra
l'elemento oggettivo di un reato - comporta la mera nullità e non più
l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col
che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità all'ente dell'atto nullo
poichè delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o
comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio di
imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta del
funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente
rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non
può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è alcun
motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o
dell'ente pubblico - se correttamente ricostruita, pure ad evitarne
strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni al di fuori
dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri
presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente
favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o
dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza
formale di cui all'art. 3 Cost., comma 1, e col diritto di difesa
tutelato dall'art. 24 Cost., e riconosciuto anche a livello sovranazionale
dall'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (firmata a
Roma il 04/11/1950, ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata
sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e
dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
(adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a
Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla
G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data
di entrata in vigore del Trattato di Lisbona - ratificato in Italia con L. 2
agosto 2008, n. 130 - e cioè 01/12/2009): poichè escluderebbe quella
più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente
responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a
generiche esigenze finanziarie pubbliche, poichè la tutela dei diritti non
può mai a queste essere - se non altro sic et simpliciter o in linea di
principio - sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da
sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte
di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez.,
Spahic e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poichè
in ogni caso va garantita, affinchè possa dirsi apprestato un rimedio
effettivo, almeno un'adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei
diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo
onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli
giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir.
Uomo 11/06/2010, Grande Camera, GMgen c/ Germania, ric.
22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perchè in insanabile contrasto
con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che,
quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o
da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare
legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia
meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati
per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina
pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un
regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita
natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che
cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o
illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente
finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano
poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità
o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur
piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari
a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e questi ne
risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale
principio dell'art. 2043 c.c.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui
appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi indiretta,
per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi
corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e
desunti dall'art. 2049 c.c..
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso
da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la
concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente
(salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla
peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale
scolastico - L. 11 luglio 1980, n. 312, ex art. 61 cpv., su cui v. Corte
Cost. n. 64 del 1992 - o dei magistrati ex L. n. 113 del 1987, su cui v.
tra le altre Corte Cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi
eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa che,
ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da
responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente quella
dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la rigida
alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di
imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28
Cost., non preclude l'applicazione della normativa del codice civile,
piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei funzionari
per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea
riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne consegue che la
concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti
illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori delle finalità istituzionali
di quella deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le
regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 c.c., l'originaria
sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in
vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza
della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un
sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri
discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente
ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione
institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo
funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del
principio dell'art. 2049 c.c., poichè questo è solamente espressione di
un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli
ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei soggetti
di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di parte lesa
nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente
infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi,
soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente
coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali)
di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione
risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es.
l'art. 22, cpv., del richiamato D.P.R. n. 10gennaio 1957, n. 3) di questo
per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto
di cui all'art. 2049 c.c.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva
per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di
imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 c.c., va premesso un
richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite
di cui alle sentenze nn. 576 ss. del di 11/01/2008 (alla cui esauriente
motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti
un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale
nell'ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione
dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., sicchè un evento è
da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre
condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo
(c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause,
posto dall'art. 41 c.p. (per il quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio
di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima
disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se
quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,
ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale
già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad
una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex
ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d.
causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale:
quest'ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale
imputabile quella che - secondo l'id quod plerumque accidit e così in
base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante
- integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose
originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana),
che ne costituisce l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre
secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante
deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da
quello dell'agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se
non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per
così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di
verificazione dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione
ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del
danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla
base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla
sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente
ad iscriversi entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza),
ove questo per l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro
efficienza peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso
causale tra l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di
questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478,
2480 e 2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed
occasione o concausa, nè per sanare la contradictio in adiecto della
nozione di occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che
questa coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto
che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le
precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si
identifica con quella peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la
verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza
l'esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente
necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità
che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della
causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale,
oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento,
vale a dire di normalità - in senso non ancora giuridico, ma
naturalistico-statistico - della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione
potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella
fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario
o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza
l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e
ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere
il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni
dell'atteggiamento psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione
all'oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli
istituzionali o - a maggior ragione - contrari a quelli per i quali le funzioni
o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della
responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata
delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le
regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole
sopra ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di
fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sè solo idoneo
a determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola
generale dell'art. 1227 c.c., in tema di concorso del fatto colposo del
danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn.
2478, 2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata
che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a
quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di
oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come
sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od
eccessi in quanto anch'esse oggettivamente prevenibili, di attività rese
possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al
preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto
egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa
prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della
propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e
quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che
possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente
improbabili) sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni
o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione
aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla
quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia
anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva
Cass. pen. 13799 del 2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose
di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in
estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse
inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non
anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di
quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto
assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante
fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni
altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla
mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare
una natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente
pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i
principi della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 c.c.,
all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica
amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e
solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto
pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente
non improbabile delle normali condotte di regola inerenti
all'espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale
violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purchè anche
essi prevenibili perchè oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur
se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del
potere di agire, purchè:
- si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità
necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto
dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e
quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata
possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base
al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta;
nonchè:
- si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla
base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del
conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che
il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle
istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente
delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele
estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli
agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere
del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in
tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa
nell'applicazione anche in materia di danni da attività non
provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso
causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di
per sè solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del
risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza
interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di
diritto: "lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno
cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche
quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per
finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle
dell'amministrazione di appartenenza, purchè la sua condotta sia legata
da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il
dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita
dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non
sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità
adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della
condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto
deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo
oggettivamente anomalo".
I. conclusioni.
61. Nella specie, non risulta mai utilmente contestato che le funzioni
attribuite allo S., cancelliere in servizio presso un ufficio giudiziario
(quale il Tribunale di Catania), comprendessero, anche in dipendenza
delle sue attribuzioni all'interno di questo, pure quelle di custodia o di
cooperazione nella custodia delle somme depositate presso il
medesimo, ricavate nelle fasi di un giudizio civile - nella specie, di
divisione - e funzionalizzate al perseguimento dello scopo istituzionale
della loro consegna agli aventi diritto, a garanzia dell'imparzialità della
Giustizia e del corretto andamento della pubblica amministrazione.
62. E' altrettanto evidente che la violazione, in concreto avutasi da
parte dello stesso S., del divieto di distrarre quelle somme dal loro fine
istituzionale era una conseguenza riconducibile ad una sequenza
causale (purtroppo) oggettivamente non improbabile e che quindi
avrebbe dovuto prevenirsi da parte di qualunque preponente:
in tanto il cancelliere infedele ha potuto appropriarsi di quelle somme
proprio e soltanto perchè era titolare di quelle attribuzioni o funzioni o
poteri, sia pure appunto piegandoli a fini eminentemente personali od
egoistici ed oltretutto delittuosi, accedendo alla cassaforte in cui il
libretto era custodito o comunque impossessandosene, falsificando la
firma del responsabile del mandato di pagamento ed accedendo presso
il depositario per riscuoterlo simulando l'attuazione di un atto
amministrativo (nella specie, giudiziario) legittimamente emesso.
63. Del danno conseguente a tale complessiva condotta criminosa,
obiettivamente prevenibile da chi conferisca ad altri il potere di
custodire somme o di eseguire ordini o mandati di pagamento a valere
sui relativi documenti rappresentativi e pertanto imputabile al primo,
non poteva che essere responsabile in solido, pertanto, l'ente pubblico
da cui il funzionario dipendeva: e la gravata sentenza va allora cassata,
in accoglimento dell'unitario motivo di ricorso ed in tal senso risolta la
questione devoluta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza di rimessione.
64. Va disposto il rinvio alla stessa corte territoriale, in diversa
composizione, affinchè, all'esito provvedendo pure sulle spese del
giudizio di legittimità ai sensi della seconda ipotesi dell'art. 385 c.p.c.,
comma 3, decida la controversia in applicazione del principio di diritto
enunciato al precedente punto 60: il quale si declina, in relazione alla
presente fattispecie, nel senso che l'Amministrazione della Giustizia
risponde dei danni cagionati dal delitto di peculato del cancelliere che,
in ragione dell'esercizio delle funzioni conferitegli (nella specie, di
custodia o concorso nella custodia delle somme, ricavate nel corso di
un giudizio civile di divisione, depositate per il perseguimento dello
scopo istituzionale della consegna agli aventi diritto), abbia
obiettivamente violato, per fini personali od egoistici, i propri doveri di
ufficio (nella specie, appropriandosi delle somme giacenti su libretto di
deposito giudiziario affidato alla sua custodia mediante falsificazione
della firma del funzionario competente per il mandato di pagamento ed
accesso presso il depositario per la riscossione).
65. Infine, va dato atto della non sussistenza, per essere stato accolto
il ricorso, dei presupposti per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n.
228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i
giudizi di impugnazione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso. Cassa la gravata sentenza e rinvia alla Corte
d'appello di Catania, in diversa composizione, anche per le spese del
giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 9 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2019
Avv. Antonino Sugamele

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